TOMAINI.

 

di Filippo Mollea Ceirano

 

2021

Attraverso le opere di Nicolò Tomaini è possibile affrontare alcuni degli aspetti più attuali e delicati di ciò che accade nel nostro tempo a vari livelli.
In un’epoca come quella che stiamo attraversando, al netto (e al lordo) della pandemia in corso, assistiamo a un degrado generalizzato che rischia di travolgere la nostra stessa specie: non sono solo la desertificazione accelerata del pianeta, l’inquinamento diffuso, il consumo dissennato delle risorse o il mutamento climatico a legittimare una certa ansia, a generare una ragionevole apprensione per il futuro, ma anche la progressiva perdita del senso critico, della capacità di ragionamento, del logos.

 

Tra le cause di questa situazione vi sono sicuramente le profonde mutazioni avvenute nel campo della comunicazione, con la crescita esponenziale e la trasformazione anche qualitativa dei suoi strumenti, che se hanno reso possibili interazioni che fino a non molti anni fa sarebbero parse ipotesi fantascientifiche, hanno però preso il sopravvento sul loro contenuto, rendendolo sempre più astratto, separato, vuoto. Molto ha fatto in questa direzione l’avvento dei social-media, il cui ruolo nel controllo e nel condizionamento delle nostre vite si va facendo sempre più penetrante. È proprio su queste questioni che Tomaini si sofferma, cogliendone gli aspetti essenziali e mettendoli in luce in modo acuto e sferzante.

 

Già nel 1967 G. Debord aveva avvertito che le condizioni moderne di produzione avevano trasformato la vita in una immensa accumulazione di spettacoli, in cui «tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione».

Ovviamente, per quanto assai lucido nella sua analisi, non poteva prevedere in dettaglio quale sarebbe stato il salto qualitativo dell’alienazione prodotto in tempi più recenti dalle neotecnologie, dall’informatica, da internet, dall’intelligenza artificiale. Ma la sua analisi ci consente di comprendere come ciò che oggi incombe sul nostro modo di vivere non è il frutto di accidenti o imprevedibili invenzioni, bensì l’effetto a lungo termine di una strategia di controllo e repressione messa in atto da tempo.

 

Siamo arrivati a un momento in cui è alto il rischio che si realizzi un passaggio epocale, irreversibile, che minaccia di nullificare l’umanità: da un lato il mondo virtuale ha così capillarmente penetrato ogni spazio della realtà da arrivare spesso a sostituirsi ad essa; dall’altro lato le generazioni più giovani sono nate e cresciute quando tale situazione era ormai consolidata, onde è in seria difficoltà quando deve coglierne l’assurdo e percepire le conseguenze prodotte.

 

Quella che è forse la vittima più illustre di questo processo è la creatività, soffocata e asservita alle esigenze della macchina della neo-comunicazione almeno tanto quanto lo è del marketing: ma proprio per questa sua posizione può anche diventare, se adeguatamente difesa e bene utilizzata, lo strumento migliore per produrre uno sviluppo di coscienza, per mostrare in modo efficace le contraddizioni dell’attuale struttura sociale, per immaginare una via d’uscita.

 

 

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In questa prospettiva la ricerca portata avanti da oltre dieci anni da Nicolò Tomaini si colloca in una posizione di primo piano con una forza esemplare.

 

Nelle sue opere un linguaggio asciutto e diretto, ma mai banale, sintetizzato coniugando i suoi svogliati studi umanistici con una pratica professionale nel mondo dell’arte di alto profilo, in cui si è cimentato a ricoprire i vari ruoli possibili, si misura con una attenta riflessione sui meccanismi della rete, sulle vecchie e nuove modalità di connessione, sulle più recenti e subdole dinamiche alienanti per di svelarne le ricadute sociali e soggettive. In tale linguaggio convergono molte delle sperimentazioni più originali ed efficaci tratte dal passato, sintetizzate in una poetica e una cifra espressiva personali e riconoscibili: si possono rinvenire elementi che affondano le loro radici nel readymade dadaista, nell’approccio concettuale, nella riproposizione di icone tratte dalla quotidianità diffusa propria dell’arte Pop, nel détournement e in generale nelle provocatorie prassi artistiche elaborate dalle avanguardie più radicali.

 

Attraverso questi strumenti Tomaini enfatizza i processi con cui i media ci incalzano e ci costringono ad accettare i loro tempi, i loro modelli, i loro diktat: fissando visivamente i momenti in cui il fruitore resta sospeso nel vuoto, succube dell’elaborazione del processo artificiale, ne rende palese l’effetto finale che riduce gli esseri umani a ridondanti accessori delle macchine.

Se ne può trarre un richiamo forte e costante a non assuefarci al mondo come ci viene imposto, tanto importante in questo scenario ormai molto vicino a un’allucinazione distopica che vede compiersi in via definitiva il fenomeno definito come “rovesciamento della protesi”.

 

Il tema dell’assorbimento alienato della vita nella neo-comunicazione è nella sua ricerca una sorta di “basso continuo”, quasi un’ossessione, peraltro giustificata dalla consapevolezza di quanto tale fenomeno sia entrato in una fase apparentemente irreversibile di avanzamento pervasivo.

 

Fin dai suoi primi lavori il messaggio è assai chiaro, formulato in termini quasi dida- scalici: così nelle serie del 2011 i simboli di passate dittature (svastica, falce e martello) incorporano il logo di Facebook o sono formati da smartphone; gli stessi smartphone in seguito entrano in dialogo con altri elementi, come selci o tavolette di argilla che re- cano impressi antichi caratteri cuneiformi, a sottolineare la distanza fra il caldo flusso comunicativo della manualità e la freddezza dei circuiti e dei pixel; oppure formano la base di simbolici crocifissi, spuntano da confezioni di xanax o divengono supporto di lettere che formano brevi parole («EGO», «INRI»).

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In questi primi esperimenti il discorso è franco e immediato: i social-media sono il fulcro di un regime solo in ap- parenza pluralista, si pongono come nuove divinità, laddove la tecnologia contemporanea – trasfusa nel dispositivo della neo-comunicazione – assorbe e imprigiona tutto il sapere atavico, è supporto e vettore tanto della personalità individuale quanto della spiritualità comune.

 

Nelle ricerche successive però l’analisi si spinge più a fondo, attinge dinamiche più articolate, investe le trasformazioni che l’evolversi del rapporto sociale vuole imporre su un piano, potremmo dire, antropologico. Al centro di questa indagine sta il processo attraverso cui la macchina tende a prendere il controllo dell’idea, della creazione, a degradare ogni cosa in icona predefinita rispetto alla quale l’unica attività mentale si riduce alla fruizione passiva; processo che porta, alla fine, a separare integralmente l’esistenza umana dalla realtà, esiliandola in una artificiosità spazio-temporale sulla quale le è negata ogni possibilità di intervenire direttamente.

 

Così, ad esempio, nella serie dei monocromi il colore che dovrebbe invadere la superfice è sostituito da una piccola icona (quella relativa alla funzione del programma Paint che serve a riempire di colore un’area) riprodotta sull’angolo sinistro della tela, che resta invece completamente vuota: ormai un artista non cerca più un suo personale effetto cromatico, ma sceglie il prodotto preconfezionato che gli viene proposto.

 

La ricerca di Tomaini si divarica da questo momento per due strade parallele: una si lega essenzialmente all’immagine, alla negazione, alla distruzione, alla interpretazione di essa, ormai in balia del dispositivo tecnologico prima di arrivare ad essere oggetto di fruizione; l’altra è invece incentrata su ciò che noi stessi diventiamo quando siamo “catturati” dai media.

La prima delle due strade porta a una riflessione che coinvolge la percezione, la me- moria storica, la sensibilità estetica. Fino a non molti anni fa davanti a un dipinto, bello o brutto, noto o sconosciuto, ci si soffermava, si osservava, si ragionava sulla particolarità di certi dettagli, sulla goffaggine di certi errori tecnici: oggi è dilagata l’accettazione – spesso per un automatismo inconsapevole o per pigrizia mentale – della mediazione, al punto che anche l’opera originale, anche quando la si ha di fronte, viene sentita come se fosse un’immagine sullo schermo di un smartphone o di un tablet. Basta trascorrere qualche ora in un museo o in una galleria per notare come tra il pubblico coloro che osservano sono molto meno di coloro che fotografano. Scompare con questo atteggiamento qualunque possibilità di rapporto diretto, di dialogo tra sog- getti che condividono stimoli, sensazioni, passioni: scompare il senso della creazione, della condivisione complice tra l’artista e il suo pubblico, probabilmente anche quello dell’arte.

 

Dunque non sorprende che dal mondo dell’arte arrivi una risposta.

 

Il punto di partenza è costituito dalle forme e dalle raffigurazioni che ci vengono dal passato, testimonianze lasciate a beneficio dei posteri per fissare il ricordo di un mondo che fu, e che nel nostro tempo non possiamo più guardare nello stesso modo. Tomaini indaga sul perché e sul come intervenendo su opere originali (vecchi ritratti o paesaggi), che ricopre in parte per riprodurre l’effetto del caricamento sullo schermo del computer, o su cui riporta frecce e barre di scorrimento, o – nella serie Petrolio – pubblicità di siti di incontri o gadget sessuali.

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Nella serie più recente Silicio, divide il quadro tra una parte in cui l’opera originale è materialmente scomposta, come in fase di annullamento, e una parte in cui riporta i caratteri digitali del codice sorgente al cui interno sono inseriti gli algoritmi di distruzione dell’immagine.

 

Il dipinto oggetto dell’intervento sembra in questo modo cercare ancora di proporsi alla fruizione, offrirsi come oggetto ancora in grado di trasmettere stimoli e suggestioni, ma subisce l’aggressione del dispositivo inorganico che prende il sopravvento, detta i tempi della percezione, stabilisce le modalità della composizione o della scomposizione della forma. Lo spettatore/osservatore dal canto suo viene costretto a soffermarsi sul processo automatizzato, congelato ed esibito in quei momenti – accidentali e prov- visori – che manifestano la vera natura dell’elaborazione compiuta dalla macchina. Già alla fine degli anni ’50 Asger Jorn aveva presentato nella mostra Vingt peintures modifiées una serie di opere “detournate”, realizzate intervenendo su vecchi quadri di maniera reperiti nei mercatini con rapidi e approssimativi gesti, colature o incerte pennellate, a comporre informi macchie di colore o grezze immagini di mostri e figure inquietanti di tipo grottesco. In quel passaggio storico, carico di aspettative sociali e culturali, l’artista danese nel testo di presentazione della mostra, dal titolo Peinture détournée, aveva esortato il pubblico a vedere nell’opera modificata una nuova vita dell’opera stessa e al contempo il superamento di un’arte definita, appagante ma staccata dal reale, per avvicinarsi a un’arte in grado di generare una continua empatia (o anche un’ostilità) tra il creatore e l’osservatore.

In linea con un’epoca assai meno promettente come la nostra i détournement di Tomaini pongono la questione in termini del tutto sovvertiti: anziché migliorare e sviluppare la libertà dell’immaginazione, il freddo, lineare, matematico intervento della macchina la schiaccia, la mortifica e ne inibisce l’accesso.

 

Le modalità con cui il processo virtuale si impadronisce al contempo del reale (il mondo del vivente) e dell’immaginario (il mondo della creatività) sono indagate nella già citata serie Silicio in modo analitico nella parte di tali opere che riproduce l’ipotetico codice sorgente di programmazione dell’annullamento dell’immagine. Infatti mentre nella parte (a seconda dei casi la metà inferiore o superiore) in cui il vecchio dipinto perde la sua forma, fissato in un passaggio intermedio della sua dissoluzione, l’esito dell’operazione è colto nel suo effetto pratico con immediata evidenza, l’immagine/testo dell’algoritmo può assumere connotazioni assai differenti, ciascuna delle quali rimanda sul piano concettuale ad un diverso aspetto del percorso di avanzamento del controllo. In alcuni casi infatti (specie nelle prime opere) il codice riprodotto è riconoscibile nell’aspetto formale, ma è in realtà solo una simulazione di fantasia: per chi abbia un’effettiva conoscenza tecnica del linguaggio è evidente che non si tratta di uno strumento pratico, che potrebbe materialmente incidere sul file, ma solo della rappresentazione iconografica, simbolica, di come la macchina possa produrre effetti anche assai penetranti attraverso procedimenti celati da un’apparente neutralità.

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In altre versioni invece viene riportato esattamente il codice che consentirebbe una reale dissoluzione della figura, l’annullamento del ‘dato visivo’; oppure la parte scritta – pur conservando la veste grafica del ‘linguaggio-macchina’ – ingloba frasi o diktat che riassumono operazioni con cui i processi virtuali vanno in concreto ad annullare la realtà rimpiazzandola con dati elettronici, come ad esempio «converti in Bitcoin» o «converti in buono Amazon». Più visivamente appariscenti sono invece le opere in cui si vede ordinatamente riprodotta la griglia classica del codice binario, o, ancor più, quelle in cui la parte testuale spicca su uno sfondo blu brillante: esso riproduce lavideatadenominataBSOD(BluScreenOf Death),concuilevecchieversionidi Windows segnalavano che, a causa del verificarsi di un errore, l’applicazione sarebbe stata chiusa «per prevenire danni al computer»; la parola computer è però sostituita con canvas (tela).

 

La accesa critica che Tomaini rivolge alla deriva che la società contemporanea pre- tende di imporre controllando in modo sempre più determinante tanto le sensazioni quanto i pensieri si sviluppa dunque in queste opere su due piani distinti: quello visivo, appariscente, che si coglie immediatamente e si rifà ai linguaggi diretti e rumorosi della pop art, e quello più complesso, articolato, concettuale, che si disvela solo dopo un’attenta indagine e uno studio approfondito e rielabora le soluzioni esplorate, in tempi meno critici ma già assai sospetti, da Vincenzo Agnetti con la sua Macchina drogata.

 

Lo stesso intento hanno anche le opere realizzate riportando su lastre di plexiglass trasparente le riproduzioni di noti capolavori completamente sfuocate, immortalate cioè nella fase di “caricamento” sullo schermo; altre volte tali riproduzioni sono realizzate dipingendole manualmente sugli schermi di veri tablet, inane tentativo di riportare in primo piano la manualità artigianale.

 

Nell’altro filone di ricerca a cui ho sopra accennato, di natura più astratta e concettuale, l’aspetto visivo scompare quasi del tutto, o meglio è assorbito completamente nella riproposizione di videate tipiche della navigazione in rete, come frasi o didascalie tipiche del web. Esse divengono “ritratti” contemporanei di personaggi illustri, conoscibili e conosciuti solo per i superficiali e approssimativi riferimenti reperibili online, di cui i passaggi particolarmente icastici appaiono evidenziati per essere copiati o condivisi.

Allo stesso modo la cronistoria dell’attività di messaggeria diviene “ritratto di amanti”, a sottolineare come ormai un rapporto amoroso si consumi essenzialmente in un asciutto scambio di brevi frasi digitalizzate, mentre nel “blocco” e nello “sblocco” del contatto si condensano i tormenti della passione. Ancora, la dicitura «Il tuo post è stato rimosso – abbiamo rimosso il tuo post perché non rispetta le linee guida della comunità» riempie la tavola intitolata Amedeo Modigliani: Nudo sdraiato, per denunciare ancora una volta la fredda logica algoritmica con cui “il grande apparato artificiale” elabora e trasmette i suoi diktat.

 

Nello stesso spirito si inscrivono anche le opere della serie Le 120 giornate di Sodoma, pacchi e imballaggi con etichette, loghi e timbri di spedizione da cui spuntano in modo da potersi appena intravedere sculture o dipinti, ridotti a gadget da vendere, acquistare, inviare o ricevere come ogni altro oggetto, che in tal modo si connotano solo (quasi solo) per forma e dimensione.

 

Nell’arco di questo percorso, che ho tentato di sintetizzare, si può cogliere la rivendicazione dell’importanza della soggettività, della capacità personale di inventare e di sentire, che pur nelle difficili condizioni di questa epoca rimangono tuttavia necessità irrinunciabili dell’umano.

 

Riflessioni, queste, di rilevanza ancor maggiore nello scenario determinato dall’emergenza epidemiologica, dove la possibilità di coltivare rapporti diretti e avere presa fisica sulla realtà è ulteriormente limitata se non del tutto inibita. Se ciò può essere opportuno e ragionevole per ragioni di evidente prudenza in condizioni eccezionali e temporanee, è fondamentale non perdere di vista che si tratta di una tragica rinuncia, di una soluzione provvisoria che occorre affrontare e superare al più presto facendo uso di tutte le risorse e gli strumenti a disposizione.
Tra questi, anche l’arte.

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